Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

L'abside, la speranza nella parusia

Feltre, l'abside della Cattedrale

di Luigi Codemo (per La Bussola Quotidina)

L’abside di una chiesa è la parete che non chiude. È il monte abbassato. Il burrone riempito. Il sentiero raddrizzato. È lo spazio aperto da Cristo, dall’avvento di «colui che è, che era e che viene» (Ap 1,8). Quelle pietre che a semicerchio fuoriescono dalle mura squadrate ricordano che ogni celebrazione della liturgia è cammino verso il ritorno di Cristo. Attestano la speranza nella parusia.
Cristo, infatti, è il veniente per eccellenza, o erchòmenos, colui che è in atto di venire (Mc 11,9). Anche ora, in questo momento. Ci sarà il momento in cui tutto sarà palese, quando il cosmo intero sarà giunto al traguardo e si aprirà il tempo della nuova terra e del nuovo cielo, il tempo della nuova Gerusalemme, della città che non ha più bisogno né del sole né della luna, perché la gloria di Dio stesso la illumina (Ap 21,23). Ma tutto questo non è ancora. Anche se è già visibile agli occhi della fede. Perché in Cristo «tutto è compiuto» (Gv 19,30). E nei sacramenti l’eschaton, ciò che sarà, è già presente e in atto. «Se uno è in Cristo – scrive San Paolo – è una creazione nuova: il mondo vecchio è passato, ecco tutto si è fatto nuovo» (2Cor 5,17).
Viviamo nel tempo del "già e non ancora". Per spiegarlo, Gregorio Magno utilizza l’immagine dell’aurora: il sole ha cominciato a sorgere, ma le tenebre cercano di stringersi ancora alle cose del mondo, spalancano le fauci e sbattono la coda, perché sanno che resta loro poco tempo (Ap 12,12). Per questo l’abside è costruito volto ad oriente, per accogliere i primi raggi del sole che sorge e vince le tenebre. L’abside è il segno esteriore della fede che, vivendo del mistero pasquale, ovvero di Cristo risorto, si rivolge piena di speranza all’incontro definitivo, non più velato, con Cristo.
La fine non è, quindi, attesa di uno spegnimento, di un fiaccarsi dei tempi, di uno sprofondare nell’inerzia della notte. Cristo ha distrutto le potenze della morte in vista dell’incorruttibilità. Per dirla con Clemente Alessandrino «Cristo ha mutato il tramonto in Oriente».
Quando si vede la croce del presbiterio inscritta nell’abside o rappresentata, come per esempio nel mosaico di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, torna alla mante che Cristo nel giorno della Parusia porterà sul corpo i segni della croce. È questo un mistero che lascia ammirati. Il corpo umano, con tutte le sue ferite, è dentro il mistero della Trinità! Certo, un corpo trasfigurato, ma che comunque non ha abolito le ferite.
Anche i dipinti che ritraggono Cristo “Giudice dei vivi e dei morti” ne mostrano le stimmate. Egli, nella sua onnipotenza, non scuote via da sé, come se fosse pulviscolo, la propria umanità. Non lo ha fatto sul Golgota e non lo ha fatto ascendendo al cielo. Egli è uomo e Dio. Per questo è giudice: perché è la misura assoluta del rapporto tra l’umano e il divino. Egli lo ha testimoniato nella sua verità. Alla verità a cui ciascun uomo è chiamato. La distanza dal suo esempio sarà oggetto del giudizio dell’ultimo giorno.
E su questo tema del giudizio è ancora l’abside che ci può aiutare, ricordandoci la misericordia di Dio. L’abside infatti, con la sua forma che esorbita, segna come un sovrappiù. Indica il tempo della pazienza di Dio. «Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Il Signore è misericordioso e quindi attende: lascia tempo affinché gli uomini si convertano e coloro che si convertono si perfezionino.

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