Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

Il Signore, che è tre volte santo


Santo, santo, santo... Tre volte santo è il Signore Dio nostro. E quante volte abbiamo ascoltato, prima della Consacrazione, queste parole! Queste solenne ripetizioni, forse, ci hanno fatto perdere di vista (almeno un po') il senso e l'importanza di questo cantico. Non pare quindi inutile soffermarvicisi sopra un poco.
Anzitutto ci chiediamo: da dove derivano queste parole? Chi le ha composte? E scopriamo che esse provengono direttamente dalla Sacra Scrittura. Infatti, se apriamo il libro del profeta Isaia (il quale visse nell'VIII secolo prima di Cristo), troviamo parole speculari al testo liturgico: “Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della Sua gloria.” (Is 6, 3) (nota 1). E la parte successiva, cioè il Benedictus, è anch'essa di origine biblica: “Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!” è infatti il grido di esultanza che la folla rivolge a Gesù quando entra a Gerusalemme (Mt 21, 9) (nota 2). Alla prima parte (Sanctus) è stato aggiunta l'invocazione “Osanna nel più alto dei cieli”, in maniera simmetrica rispetto alla seconda parte.
Come si sarà già potuto notare, il testo liturgico è molto simile a quello della Parola di Dio. In latino abbiamo “Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pleni sunt cæli et terra gloria Tua. Hosanna in excelsis. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis.” La traduzione italiana utilizzata nella liturgia è “Santo, santo, santo il Signore Dio dell'universo. I cieli e la terra sono pieni della Tua gloria. Osanna nell'alto dei cieli. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell'alto dei cieli.
Come abbiamo visto, il Sanctus deriva da un passo di Isaia. In esso leggiamo che, nell'anno della morte del re Ozia (ca. 740 a.C.), ebbe una visione, in cui vide Dio seduto sul trono. Attorno a Lui v'erano alcuni serafini, che proclamavano l'un l'altro le parole che abbiamo riportato sopra. Il testo liturgico, rispetto a quello biblico, aggiunge un “Deus” tra “Dominus” e “Sabaoth”. Inoltre, mentre nella Scrittura si parla della la gloria del Signore che riempie la sola terra, nella liturgia è stato aggiunto un riferimento anche ai “cieli”, anch'essi ripieni della stessa gloria.
Un'espressione simile la troviamo in Ap 4, 8 ove i “quattro viventi” (nota 3) che stanno “in mezzo e intorno al trono” di Dio proclamano un'invocazione simile “Santo, santo, santo il Signore Dio, l'Onnipotente, Colui che era, che è e che viene!”.
E' quindi del tutto evidente che le parole del Sanctus vogliono riprendere direttamente la liturgia celeste (nota 4), che è intrinsecamente connessa a quella terrena (nota 5).
Vediamo il testo, dunque. Anzitutto, troviamo il triplice grido “Santo, santo, santo”. E' il Signore che è tre volte santo. Perché questa ripetizione?
Anzitutto i Padri vi hanno visto un riferimento all'augusto mistero della Trinità: santo è il Padre, santo è il Figlio, santo è il Paraclito (nota 6).
In secondo luogo, esso è un sottolineare la grandiosa santità di Dio: poiché infatti il numero tre è simbolo di pienezza (nota 7). E nella Sacra Scrittura uno dei temi più importanti è proprio l'evidenziazione della santità di Dio (nota 8).
In terzo luogo, possiamo considerare che la santità di Dio tocca anche noi, poveri peccatori: “siate santi, perché Io sono santo” (Lv 11, 44-45) afferma il Signore. Mentre dunque proclamiamo con la bocca la santità di Dio, dovremmo cercare di conformarci ad essa, per quanto ce lo permetta la misera condizione umana.
L'espressione successiva serve ad esplicitare a chi si rivolge questa triplice invocazione: al “Signore Dio degli eserciti” (nota 9), dove quest'ultimo termine si intendono le schiere di angeli. A tal riguardo, giova ricordare che, poco prima, al termine del Prefazio, il sacerdote aveva umilmente proposto che l'assemblea della Chiesa pellegrina nel mondo si unisse ai cori celesti nella proclamazione dell'inno di lode. Dunque, prima un'invocazione trinitaria, poi un'invocazione all'unico Dio. Afferma Innocenzo III: “Tre volte si dice Sanctus e una volta sola si dice Deus, affinché si riconosca il mistero della Trinità e dell'unità.” (cfr. Legis et Sacramentis Eucharistiae, in PL 217, 858). Ma nella stessa opera si propone anche un'interpretazione un po' diversa per l'espressione “Sabaoth”: essa non indicherebbe solamente le schiere angeliche, ma anche la milizia della Chiesa (“Tot enim exercitus habet Deus in terra, quot sunt ordines in Ecclesia: tot abet in cœlis, quot ordines sunt in angelis”; cfr. PL 217, 839).
Poi si afferma che “i cieli e la terra sono pieni della Tua gloria”. Vien naturale qui chiedersi: che cos'è questa “gloria”? Rispondiamo con le parole del beato Giovanni Paolo II: “La Gloria di Dio è prima di tutto in lui stesso: è la gloria “interiore”, che, per così dire, riempie la stessa profondità illimitata e l’infinita perfezione dell’unica Divinità nella Trinità delle Persone. Questa perfezione infinita, in quanto pienezza assoluta di Essere e di Santità, è pure pienezza di Verità e di Amore nel contemplarsi e nel donarsi reciproco (e quindi nella comunione) del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Mediante l’opera della creazione la gloria interiore di Dio, che sgorga dal mistero stesso della Divinità, viene in un certo senso trasferita “al di fuori”: nelle creature del mondo visibile e di quello invisibile, in proporzione al loro grado di perfezione.” (nota 10) Nel nostro caso, sembra senz'altro che la “gloria di Dio” si riferisca a questo secondo significato, che la Catholic Encyclopedia indica “testimonianza che l'universo creato rivolge alla natura del suo Creatore, come un effetto rivela l'indole della propria causa.” Infatti, Dio ha creato, liberamente e per amore, tutte le cose (CCC 279, 290). “Tutte le cose visibili e invisibili” esistono perché partecipano all'essere di Dio: se non avessero ricevuto da Dio l'essere, esse semplicemente non esisterebbero (nota 11). Da questo deriva che “Ogni cosa che il Suo fiat ha chiamato all'esistenza è una copia [finita e imperfetta, ndr][...] di alcuni aspetti della Sua infinita perfezione. Ogni cosa riflette entro limiti fissi qualcosa della Sua natura e dei Suoi attributi.” (Catholic Encyclopedia).
Segue il primo “Osanna nell'alto dei cieli”. “Osanna” è un termine ebraico (hōshī ῾āh-nnā: “salva”: cfr. Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/osanna/) che indica gioia ed esultanza, che – con espressione immaginifica – prorompe con forza, supera i confini della terra e sale sino in cielo (che tradizionalmente indica la sede di Dio).
Si passa poi all'espressione “Benedetto Colui che viene nel nome del Signore”. E' ripresa, come detto, dal grido della folla a Gesù che entra a Gerusalemme (Mt 21, 9). E' evidente che anche nella liturgia ci si riferisce al Figlio di Dio: è significativo, infatti, che queste parole vengano dette poco prima della Consacrazione, cioè del momento in cui Nostro Signore si fa realmente presente in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. E come può un cattolico non elevare il suo animo e la sua voce all'esultanza e al ringraziamento verso Cristo, che si è incarnato, ha patito atroci sofferenze e si è immolato sull'altare della Croce per salvare gli uomini dall'abisso del peccato in cui essi stessi, per disobbedienza e superbia, si erano cacciati? Nella già citata opera, Innocenzo III riferisce il Benedictus al mistero dell'Incarnazione: “poichè è veramente necessario alla salvezza eterna che si confessi pure il mistero dell'incarnazione, rettamente si soggiunge [al Sanctus, ndr] Benedictus qui venit in nomine Domini.” (PL 217, 840).
Infine, una nuova, solenne ripetizione dell'intima felicità del cristiano: “Osanna nell'alto dei cieli”. Non aggiungiamo altro, qui, a quanto già detto in merito sopra.
A conclusione, possiamo esaminare brevemente la questione da un punto di vista della storia della liturgia.
La prima parte, il Sanctus cioè, è veramente un testo antichissimo, attestato forse già nel primo secolo dell'era cristiana (alcuni interpretano in questo modo un passo della lettera di san Clemente Romano ai Corinzi, cap. XXXIV) ed è attestato con sicurezza a partire dal IV secolo. Il Benedictus è più tardo (VI-VII secolo). Generalmente essi erano cantati dal popolo, almeno sino al VII secolo e in alcuni luoghi fino quantomeno al XII. Venivano cantati assieme sino al XVI secolo, quando furono separati: il Sanctus si cantava subito dopo il Prefazio, come oggi, mentre il Benedictus era spostato a dopo l'elevazione delle Sacre Specie. Una delle ragioni di questa pratica, probabilmente, è da ricercarsi nello sviluppo della musica medievale, che provvedeva ad utilizzare tropi e melodie piuttosto complesse, che prolungavano alquanto il canto: forse si preferì di conseguenza spostarne una parte più in là (nota 12).
A partire dal XIII secolo è documentato l'uso di accompagnare il canto col suono dei campanelli (nella forma straordinaria del rito romano è rimasto l'uso di suonare tre colpi, proprio di campanello, al Sanctus: evidente di fare un triplice segnale). Costume probabilmente più antico è quello del celebrante di inchinarsi (anche quest'uso si conserva nella forma straordinaria, anche se non si estende al Benedictus) e di farsi un segno di croce al Benedictus medesimo (quest'ultima pratica è documentata almeno a partire dall'XI secolo).


Bibliografia: J. A. Jungmann S.J., Missarum Sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della Messa romana, Torino, Marietti, 1953 (II ed.).

Cornelio a Lapide (1567-1637), Comentaria in scripturam sacram, Parigi, Apum Ludovicum Vives, Bibliupolam Editorem, 1891.

The Catholic Encyclopedia, voll. 15, New York, Rober Appleton Company, 1907-12.


(nota 1) La traduzione riportata è quella Cei 2008, praticamente identica alla Cei 1974 (“Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della Sua gloria.”). Il testo della Vulgata (inizio V secolo) ha “Sanctus Sanctus Sanctus Dominus exercituum plena est omnis terra gloria eius” (la Nova Vulgata – anno 1979 – mantiene questa medesima traduzione). La traduzione dei LXX ha “Ἅγιος ἅγιος ἅγιος κύριος σαβαωθ, πλήρης πᾶσα ἡ γῆ τῆς δόξης αὐτοῦ.” Il testo della Bibbia Ebraica ha “קָדוֹשׁ קָדוֹשׁ קָדוֹשׁ יְהוָה צְבָאוֹת; מְלֹא כָל-הָאָרֶץ, כְּבוֹדוֹ”.

(nota 2) La traduzione riportata è quella Cei 2008 (la Cei 1974 è identica). La Vulgata ha “Benedictus qui venturus est in nomine Domini osanna in altissimis", mentre la Nova Vulgata “Benedictus, qui venit in nomine Domini! Hosanna in altissimis!” Il testo greco del Nuovo Testamento ha “εὐλογημένος ὁ ἐρχόμενος ἐν ὀνόματι κυρίου, ὡσαννὰ ἐν τοῖς ὑψίστοις”.

(nota 3) Si tratta di quattro angeli delle più alte schiere.

(nota 4) “Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste […] insieme con tutte le schiere delle milizie celesti cantiamo al Signore l'inno di gloria” (Sacrosanctum Concilium, 8).

(nota 5) “Essa [la liturgia terrena, ndr] è l'entrare nella liturgia celeste già da sempre in atto. La liturgia terrena è liturgia solo per il fatto che si inserisce in ciò che già c'è, in ciò che è più grande.” (Joseph Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo, Milano, Jaca Book, 1996, p. 157)

(nota 6) Cfr. ad es. san Giovanni Damasceno, De hymno Trisagio epistola (PG 95, 26): “santo, santo, santo, e tre Persone sono celebrate in una medesima gloria”; Ps. Agostino, De fide ad Petrum sive De regula veræ fidei, lib. I, cap. I (PL 40, 755): “Hanc Trinitatem personarum atque unitatem naturæ propheta Isaias revelatam sibi non tacuit, cum se dicit Seraphim vidisse clamantia: Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus sabaoth (Isai. VI, 3). Ubi prorsus in eo quod dicitur tertio, Sanctus, personarum Trinitatem”.

(nota 7) Cfr. ad es. Gianfranco Ravasi, Cinquecento curiosità sulla fede, Milano, Mondadori, 2009, p. 290. Nozione presente anche nella filosofia greca: cfr. Aristotele, De cælo, lib. I, cap. I, § 2.

(nota 8) A titolo esemplificativo: Lv 11, 44-45; 19, 2; 20, 26; 21, 8; Gs 24, 19; 1 Sam 2, 2; 2 Mac 14, 36; Sal 70, 22; 77, 41; 98, 3; 144, 17; Sir 36, 3; Is 5, 16; 8, 13; 43, 15; Ez 20, 41; 39, 7; Os 11, 9; Ab 1, 12; Mc 1, 24; Lc 1, 35; 4, 34; Gv 6, 69; 17, 11; 20, 22; Ap 6, 10; 15, 4; 16, 5.

(nota 9) Il testo masoretico ha יְהוָה צְבָאוֹת, cioè “Signore delle schiere, delle armate”; il termine usato per indicare le schiere, pronunciato ṣĕbā’ōt (cfr. Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/sabaoth/), passò per semplice traslitterazione al greco (i LXX hanno “ κύριος σαβαωθ” - pr. Kyrios Sabaoth) e poi alla liturgia.

(nota 10) Cfr. Udienza generale del 12 marzo 1986.

(nota 11) Cfr. Roberto Coggi O.P., Dio creatore, gli angeli e l'uomo, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2002, p. 30-31.

(nota 12) Nell'usus antiquior la regola attuale per le Sante Messe in canto è questa: se il canto del Sanctus e del Benedictus è fatto con la melodia gregoriana, esso va svolto di seguito; se invece si utilizza una melodia diversa, il Sanctus si fa subito dopo il Prefazio, mentre il Benedictus si sposta a dopo la Consacrazione (cfr. Instructio De musica sacra, 27/d, 3 settembre 1958). Cfr. Cuneo-Di Sorco-Mameli, Introibo ad altare Dei. Il servizio all'altare nella Liturgia Romana tradizionale, Verona, Fede & Cultura, 2008, p. 178-9.
 

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